Un testo disperato, martellante, dinamico e tragico. “La numero 13” di Pia Fontana, portato sulla scena dell’Elfo da Cristina Crippa per la regia di Elio De Capitani, torna, a sette anni dal suo debutto, a turbare e sconvolgere. Una scena scarna, spoglia, essenziale. Il fondo del palco del teatro, il muro che termina lo spazio, la fine. Tutto bianco, pulito, asettico. Qualche sedia, una cassa e qualche bidone di vernice. Pennelli e rulli sparsi in giro. Una luce forte e chiara, fissa e invariata. È in questa scena che fa il suo ingresso una donna, turbata fin dal principio. Racconta del cimitero Monumentale – l’unico dove “si riesce a ridere” – e delle sue statue, in particolare la numero 13 – un angelo senza testa e senza braccia, inutili per un angelo come per un’onda, o per una nuvola – l’unica davanti alla quale smette di ridere. Inizia un turbinio di parole dove si mescolano impressioni, colori, ricordi spezzati, gesti e memorie. Entra prepotentemente nel racconto sconnesso della donna la figura di una sorella rigida e legata al suo ruolo di madre. Una sorella gemella che la donna continua ad accusare di aver portato la figlia, la sua unica figlia tredicenne, alla morte, soffocandola e chiudendola tra le strette pareti del suo folle, perfetto amore. Si intuisce una divisione, la donna esaspera il contrasto: da un lato se stessa, artista per scelta senza figli, creativa solitaria dedita alla sua arte e alla copertura di grandi pareti di vernice gialla; dall’altra la sorella, donna femminile e bella, che l’ha sempre accusata di disumanità per la sua voglia di non avere figli. In mezzo, questa bambina, che la donna dice con tenerezza essere stata così simile a lei, appassionata di colori e disegno. Bambina che la madre ha costretto a finire nella tomba, impedendole si seguire le proprie passioni e costringendola ad una vita fatta di cose, bambole e torte, che la bambina non amava, rendendo la bambina un essere infelice. Un continuo riferimento alla morte, all’inevitabile destino dell’uomo; una riflessione sul ruolo della madre e sul significato della procreazione, in un certo senso. Il pericolo di proiettare sui propri figli tutto quello che si vorrebbe avere per se stessi. Una riflessione amara e cruda sul destino delle “madri di bambini”, condannate presto o tardi alla solitudine, al contrario delle “madri di opere” la cui arte non le abbandonerà mai. Consideriamo la vita come una fortezza da conquistare e non ci accorgiamo di esserci dentro, finché non ci crolla addosso: e per evitare che la vita le crolli addosso la donna dipinge; si sforza, nonostante la fatica e i dolori, di portare a termine la sua opera di “ingiallitura” del muro. Un muro che appare sempre più frantumato, frastagliato, sporcato e incompleto, come la mente della donna e come l’uso dello spazio: acrobatico, interrotto, saltellante, zoppicante, strascicato. Una costruzione spaziale, fatta di variazione di livelli e velocità, che rispecchia il messaggio centrale: l’incapacità per una donna di accettare il dolore più grande, quello della perdita di una figlia; l’incapacità di accettare per se stessa una posizione definita, quella della madre che ha visto morire la figlia, soffocandola e uccidendola con il suo “divorante amore”. Donna e gemella lentamente si sovrappongono fino a coincidere. Un finale sconvolgente che trascina tutti, indistintamente, nella disperazione profonda della scena a cui stanno assistendo. Il pubblico, vicino, vicinissimo, intimo, viene lasciato entrare, scivolare, nella disperazione e nella follia fino a quel momento solo intravista e annusata, forse pallidamente intuita. Un incidente. Un camion che investe una bambina di tredici anni costringendola ad andare ad occupare l’ultimo posto libero della tomba di famiglia. Una bambina lasciata sulla strada come una “bambola rotta”, un “fagotto insanguinato”. È qui il dramma. L’ingiustizia. La rabbia per una morte fetida che ha colpito la persona sbagliata, lasciando in vita chi poteva solo coprirsi di sensi di colpa e dipingere muri, per cercare di capire o dimenticare. E il bianco diventa clinica, le foto diventano ricordi vivi e reali, un’impalcatura diventa una tomba. Tutto slitta e si muove per evitare di soffermarsi, se non alla fine, sul dolore. Sul dolore a cui, alla fine, non si riesce a sfuggire.

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