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Si è fatto conoscere al grande pubblico con la 52° e la 53° Biennale d’Arte di Venezia e con la delicatezza con cui presentò, in video, la vita dei Giardini veneziani durante il periodo di calma tra le Biennali.
Arriva in Italia la prima opera cinematografica dell’artista inglese Steve McQueen, “Hunger”. Un crudo e sincero racconto di ciò che accadeva nel 1981 all’interno del H-block del carcere di Long Kesh, nell’Irlanda del Nord. Nelle celle di quest’ala erano rinchiusi i dissidenti repubblicani dell’IRA, in lotta per far riconoscere il loro status particolare di prigionieri politici. Noi approdiamo a Long Kesh insieme a Raymond Lohan, una guardia penitenziaria. Lo vediamo prepararsi la mattina a casa (una delle poche scene esterne al carcere), prendere la macchina (dopo aver controllato che non ci siano bombe sotto il telaio) e recarsi al lavoro. Un’ala di prigione particolarmente turbolenta: i prigionieri stanno facendo lo sciopero delle coperte e lo sciopero dello sporco, ovvero si rifiutano di indossare divise come gli altri e imbrattano celle e spazi comuni di tutto ciò che il loro corpo produce. Ci spostiamo poi al punto di vista dei prigionieri, seguendo i primi passi nel carcere del giovane Davey Gillen. Lo vediamo, spaventato e impavido allo stesso tempo, rifiutare la divisa, entrare in una cella sudicia, venire picchiato senza esclusione di colpi per il solo fatto di essere un dissidente, uno che lotta per i propri ideali. Vediamo, in scene corali e profondamente drammatiche, tutti i prigionieri malmenati in seguito ad una rivolta interna. Restiamo impressionati da tutti questi Gesù Cristi nudi con i capelli lunghi, magri e determinati, trascinati e bistrattati, che non mollano in nome di un’idea e del diritto di essere loro stessi. Un primo atto fatto di immagini e di sensazioni, basato sulla percezione che riusciamo a seguire, sull’intuito e sulla scoperta dei sistemi di sopravvivenza e di solidarietà.
In fondo non riusciamo, come non riusciremo per tutto il film, a schierarci in modo definito e determinato, a decidere senza remore chi sono i buoni e chi sono i cattivi.
Dopo questa lunga introduzione – in cui abbiamo sentito quasi esclusivamente suoni, grugniti e versi – conosciamo il protagonista, Bobby Sands (lo strepitoso Michael Fassbender), uno dei capi della rivolta. Lo vediamo, velocemente, mentre ritira messaggi giuntigli dall’esterno del carcere con gli stratagemmi più diversi. E poi, la scena madre. Una lunga sequenza di oltre mezz’ora. Un’unica scena, serrata, straordinaria: un dialogo a camera fissa. Bobby Sands – dopo una sorta di riscaldamento, di introduzione e convenevoli atti a prendere bene le misure – rivela a Padre Moran (Liam Cunningham) la sua intenzione di dare il via ad uno sciopero della fame. I prigionieri partiranno a distanza di due settimane uno dall’altro, in modo, nel caso, da morire in fila, da essere continuamente rimpiazzati, da non lasciare vuoti. Nel lungo vis-à-vis, i due si spiegano – in un crescendo di conflitto che non lascia comunque vincere nessuno – le rispettive ragioni: la determinazione a morire, la scappatoia, la lotta per gli ideali, l’abbandono della famiglia. È l’analisi, disincantata e senza melodramma, di un’azione estrema e dei suoi possibili significati. Un solo taglio sull’accensione della terza sigaretta (il tempo si è fermato) e la chiusura della scena: stavolta la camera stringe su Bobby. Altri lunghi e serrati minuti in cui ascoltiamo le sue motivazioni, la sua storia personale, raccontata con un aneddoto. Questo è il secondo atto di Hunger, un capolavoro assoluto di recitazione, di equilibrio, di tensione costruita solo di dialogo e piccoli gesti, un atto costruito sulla verità di una situazione e sulla verità di due attori incredibili, che non mollano mai, nemmeno per un istante.
Lungo il terzo atto del film vediamo Bobby iniziare, e finire, lo sciopero della fame. Vediamo senza troppi fronzoli il dramma di qualcuno che ha deciso di usare il proprio corpo, ultima risorsa, come strumento di protesta. Ci troviamo catapultati (senza sapere bene come ci siamo arrivati) in mezzo a piaghe, sofferenza, debolezza, e non sappiamo distinguere tra stupidità, determinazione, martirio, nobiltà. Bobby Sands è stato il primo di dieci a morire di fame per affermare il diritto di essere rinchiuso come prigioniero politico. Lo status non verrà mai riconosciuto dal governo britannico, ma le condizioni di detenzione verranno, negli anni successivi, in parte modificate.
Hunger è un lavoro preciso, delicato, estremamente sensibile. Si dice poco, si sente molto. Si provano sensazioni contrastanti, non è facile schierarsi. È un film con una grande potenza visiva, in termini di immagini e colori. Resto convinta che la parte più intensa del film – anche se non è la più toccante o sconvolgente – sia la scena centrale, un vero tocco di genio da parte di ogni componente della troupe coinvolta. È un film che fa riflettere su cosa possa significare credere in qualcosa al punto da usare qualsiasi strumento: e quanto gli strumenti sono finiti, ricorrere all’ultima cosa che nessuno può toglierci, il nostro corpo.

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Al grido di “viva l’adattamento”, un vortice discendente in tre tempi sulla nostra società, sulla necessità di apparire, sui sacrifici per la fama, sul successo, sulla sottomissione delle donne.
“La merda”, primo appuntamento di un decalogo del disgusto in corso di scrittura, è un’opera sintetica e vasta allo stesso tempo. L’autore, il giovane Cristian Ceresoli, ha concepito la drammaturgia addosso alla strepitosa interprete del testo, Silvia Gallerano.
In scena un semplice piedistallo da circo in metallo. All’ingresso del pubblico lei è già in scena, seduta sul suo trespolo, nuda, con dei codini da manga e un microfono in mano, a bofonchiare qualcosa che ha un vago sapore di inno nazionale.
Dedicato ai 150 anni di storia italiana, “La merda” è il flusso di coscienza, il cervello scoperchiato di “una piccola” del mondo (ma suo papà diceva sempre che anche i Mille erano tappi denutriti, che le loro camicie ora se le potrebbero mettere dei bambini…). Lei, con la sua voce pungente e precisa, con le sue cosce centro dei suoi discorsi. La sua rincorsa della televisione, il suo spirito di sacrificio: dalla prima toccata ad un compagno handicappato (l’aveva guardata con quella faccia da pietà… lei non poteva rifiutare… ma era preoccupata di vomitare. E poi lui? Nemmeno un saluto? Ma con chi pensava di avere a che fare?), alla proposta di favori sessuali pur di arrivare. Di arrivare a fare una pubblicità in cui una ragazza “bassa e grassa” (ma non proprio “grassa”) doveva cantare con tutta la sua anima l’inno d’Italia. Sacrificio! Questo ci vuole nella vita: sacrificio! Sapersi adattare per andare avanti. Sempre avanti.
E già si immagina quando, in coda in autostrada o al supermercato, quelli di fianco a lei in coda la riconosceranno: “Ma tu sei quella di…?”, “Ma tu hai fatto…?”, “No!! Sei proprio tu, …?”. Sì, certo! Dopo tanti sacrifici sì, è proprio lei, è esattamente lei, precisamente, senza nessun dubbio. Orgogliosamente LEI!
Silvia Gallerano è eccezionale. Una macchina, senza intoppi, perfetta. Ed emozionante. Straordinariamente vera. Raro vedere attori che sappiano usare con tale precisione e consapevolezza il proprio corpo e la propria voce. E, per una volta, un corpo nudo è un elemento scenico , non un pretesto o una scorciatoia. Ci si dimentica che è nuda. Bisogna proprio riguardarla, rendersi conto del perché. È un elemento armonico, coerente. Stiamo guardando dentro al suo cervello, lei, intima. Non il suo corpo. Stiamo guardando la sua ossessione per le cosce, non le sue cosce. E ascoltiamo la sua voce, diretta dalle parole come lungo una partitura musicale.
E l’Italia? Un paese sottilmente deriso. O forse sono gli italiani a essere derisi. O, più in generale, tutti coloro che permettono al meccanismo dell’apparenza di avere il sopravvento.
Resta il fatto che, quando a conclusione, sentiamo di nuovo l’inno borbottato, sgangherato, strascinato, sminuzzato, pensiamo che in fondo è bello cantato così. E forse è anche particolarmente vero.

“Dicono che a narrare storie il mondo diventi assai meno terribile, e per tal compito, in questi tempi amari dove a parlare sembra essere solo la realtà, ci siam messi all’opera, con passo volatile e leggero, ma per toccare sostanze alte e un sentire sincero”.
Marco Baliani è un teatrante eclettico: attore e regista, si sposta dal teatro civile alla letteratura con grande facilità e senza sbalzi.
L’ultimo lavoro da regista lo vede alle prese con Ludovico Ariosto e con il suo capolavoro, l’Orlando Furioso. In scena Stefano Accorsi è narratore e protagonista delle vicende, numerose ed intricate, che si snodano lungo il poema. Sullo sfondo sempre lui, l’Amore, nelle sue sfumature, implicazioni e variazioni.
Ad accompagnare Accorsi in questa leggendaria avventura una delicata e spiritosa Nina Savary – francese ma con una pronuncia molto precisa in italiano, nonostante la difficoltà del testo – figlia d’arte ancora non conosciuta in Italia. Presenza femminile leggera e ironica, Nina Savary è la musicista e rumorista dello spettacolo. “Furioso Orlando” infatti è costruito sul testo, sulla musicalità delle rime, sulle assonanze tra le parole e sul ritmo delle sillabe, ma anche sui rumori e sui trucchi scenici. Sul palco, presenze curiose e silenziose, strane macchine vengono avviate a seconda del momento: sentiamo il suono del mare uscire da un setaccio pieno di pietruzze, il vento venire da un mulinello che sfrega contro della stoffa, il tuono liberarsi da una lastra di metallo scossa con forza.
E così, tra rimandi a Omero, Shakespeare (gli attori, in fondo, non sono fatti della stessa sostanza dei sogni?) e Dante, seguiamo Orlando nella sua disperata corsa dietro all’amata Angelica, che continuamente gli sfugge. Voliamo sull’ippogrifo con Ruggero, ci innervosiamo con Bradamante e ridiamo degli incantesimi della maga Alcina. Un tuffo in una letteratura che, troppo spesso, resta confinata a studi liceali e non più ripresa, riletta, rivissuta. Orlando Furioso è un poema ancora in grado di dirci qualcosa, di farci sorridere, di ricordarci quanto la fantasia possa farci visitare mondi lontani e conoscere eroi e mostri e maghe e cavalieri.
Baliani ha reso con semplicità esemplare, aiutato da due bravi attori, una storia basata sull’amore e sulla gelosia. Una sintesi perfetta di un lungo poema che è una pietra miliare della nostra letteratura. Non disturba che il poema sia smontato e ricostruito, adattato e integrato con versi nuovi o altrui. Anzi, lo rende completo e leggibile per il pubblico del ventunesimo secolo, senza la pretesa di restare in un’aura di poetica nostalgia cinquecentesca. E, “se poi sono riusciti ad incuriosirci”, l’invito a rileggere il testo dell’Ariosto è qualcosa che si accoglie volentieri. Un suggerimento prezioso, molto lontano degli obblighi scolastici.

Nel 2008 diciassette ragazze nel Massachusetts decisero di rimanere incinte nello stesso periodo per poter crescere i loro bambini insieme. La più grande aveva 16 anni. La paternità? Del tutto irrilevante.
Da questo particolare evento di cronaca americana, le sorelle Delphine e Muriel Coulin hanno tratto il loro primo lungometraggio, che ha vinto il Premio Speciale della Giuria al Torino Film Festival dello scorso anno.
Spostata l’ambientazione in una piccola città in Bretagna, la storia prende il via dalla scoperta di una delle protagoniste, Camille (Louise Grinberg), di essere rimasta incinta. La notizia viene vissuta da lei e dal suo gruppo di amiche come la possibilità di un cambiamento, l’occasione per dare una svolta. L’aspirazione a cambiare le cose si concretizza così in un largo gruppo di adolescenti incinte nello stesso liceo, tra lo sgomento e i rimproveri degli adulti. Una scelta complicata che viene vissuta con leggerezza, come una rivendicazione, tra le insicurezze nascoste di qualcuna e la paura di qualcun’altra. Il sogno di poter vivere tutte insieme, di crescere i bambini in un ambiente allargato in cui tutti si danno una mano, le porta avanti nell’impresa. Il film non finisce “tout rose” (come dice Muriel Coulin) ma l’impressione che le ragazze abbiano fatto, anche se non in modo corretto né ortodosso, qualcosa di speciale resta.
“17 ragazze” è un film che suscita, volutamente, sensazioni contrapposte: la tenerezza per delle giovani future madri, partite da una visita medica nella loro scuola e approdate all’ecografia in un baleno; il fastidio per i loro comportamenti irresponsabili; l’irritazione per l’egoismo alla base della scelta della loro utopia; la nostalgia di un periodo, l’adolescenza, pieno di energia e sogni. La loro utopia funziona perché sono tante. È il mezzo scelto, in fondo, a non permettere a questo sogno di diventare realtà: la gravidanza non può essere una scelta collettiva, ma è esclusivamente individuale.
Il film non è manicheo, lascia aperti molti squarci a sensazioni opposte e ad interpretazioni differenti. Camille non è un’eroina, è solo la prima. È sicuramente però, come evidenziato da Gianni Canova durante un incontro con una delle registe, un film “circolare”, basato sulla rotondità. È un cinema di sensazioni, avvolgente, che trasmette questo senso si appartenenza magistralmente anche a livello visivo, con panoramiche, riprese circolari, oggetti che ruotano, pancioni, gruppi, ambientazioni caratterizzate da curve. Le due sorelle hanno creato un contorno di ambienti agli antipodi: da una parte il vento, il mare, le onde, la sabbia; dall’altra una città immobile, fissa che le rinchiude in una dimensione che loro non vogliono rispettare.
“17 filles” è un film da vedere. Si può vederlo come una domanda sul limite verso cui ci si può spingere per inseguire un sogno. O una domanda sul perché di una vita che nasce. O sull’adolescenza e il senso di appartenenza. O su cosa si vive in modo solitario all’interno di un gruppo (memorabili i momenti in cui le ragazze vengono riprese nelle loro – vere – stanze a riflettere). In ogni caso, è un film che fa domande. Una sfida necessaria.


Stare in piedi, schiacciati, pressati, al buio. Non vedere bene quello che succede, cercare di star dietro alle voci che spiccano sparpagliate nella folla, cercare di sollevarsi sulla punta dei piedi per vedere meglio, anche solo un’ombra. Turbinare tra una luce che si accende sulla destra e un urlo che viene da sinistra… Questo è l’inizio de “L’istruttoria”, storico spettacolo di Peter Weiss che Gigi Dall’Aglio e il Teatro Due portano in giro in Italia e nel mondo da ventotto anni, senza interruzione. Uno spettacolo che resta, per forza di cose, un momento fondamentale del percorso della memoria. Con le sue quasi 100 repliche, “L’istruttoria” è un caso unico in Italia: sono infatti sempre gli stessi attori a portare in scena lo spettacolo. Roberto Abbati, Paolo Bocelli, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Gigi Dall’Aglio: sempre loro, dal 1984.
La drammaturgia si basa sui processi contro i crimini nazisti tenutisi a Francoforte negli anni ’60. Weiss presenziò a molte sedute del processo – il processo durò in totale oltre 100 giornate, e vide la partecipazione di più di quattrocento testimoni, più della metà dei quali erano sopravvissuti al lager – e trasformò deposizioni e testimonianze in un testo strutturato in capitoli.
La sensazione provocata nel pubblico è forte. Si inizia appunto in piedi, senza capire, si resta spaesati, pigiati gli uni agli altri. È fastidioso, e quindi perfettamente coerente. Dopo un primo canto così, il pubblico si accomoda in sala e seguono altri canti, ognuno dei quali racconta una storia personale o un tema: le torture, gli esperimenti sulle donne, le camere a gas, i forni crematori, la punizione per chi cercava di aggirare le regole.
In una scena spoglia, cupa, con una grossa parete-lavagna sul fondo, la voce che compie le indagini legge senza tono – limitandosi a piccole impercettibili pause quando c’è troppo da dire – le atrocità e le violenze che hanno caratterizzato i campi e la vita (o la morte) al loro interno. Gli altri attori impersonano i protagonisti delle vicende narrate, strazianti, ma senza enfasi. È solo scorrere di momenti, di tragedie, come a dire che è stato tutto – per davvero – possibile.
Il finale resta sospeso. Al momento dell’incontro con alcuni dei responsabili delle stragi, seduti al banco, il pubblico viene fatto uscire dalla sala. Ancora una volta, non capiamo cosa stia succedendo. Semplice: non abbiamo la possibilità di vedere come va a finire. Si resta sospesi, con una sensazione di disagio addosso. Una sensazione giusta, provocata, pungente.
“L’istruttoria” è uno spettacolo importante, un testo necessario che non smette di toccare e che si spera possa non smettere mai. Da vedere.

I personaggi più interessanti dei drammi hanno sempre una vena di ambiguità al loro interno. Anche se sono spietati gangster, o assassini, o violenti guerrieri non riescono mai a distaccarci completamente, resta in loro una potenza ermetica che attrae il pubblico dalla loro parte. Almeno un po’.
È sicuramente questo il caso di Arturo Ui – personaggio che Brecht creò nel 1941 – e di tutta la cricca di personaggi che attorno a lui ruota: Ui è un gangster della Chicago degli anni ’30, che tiene sotto scacco il mercato dei cavolfiori, in risalita dopo il crollo del ’29. Brecht scrisse “La resistibile ascesa di Arturo Ui” dall’esilio finlandese, in attesa di espatriare verso gli Stati Uniti. È un testo scritto velocemente, con la guerra e le violenze naziste nelle mani. Arturo Ui è, a tutti gli effetti, Hitler e i personaggi della storia sono riconducibili – per nomi e azioni, per equilibri di potere e servilismi – a uomini e donne realmente esistiti e a fatti storici avvenuti nella Germania oppressa dal nazismo.
Claudio Longhi porta all’Elfo di Milano una versione del dramma estremamente interessante e originale. In scena – accanto allo strepitoso Atruro Ui/Umberto Orsini, la cui espressività corporea da sola basterebbe a far percepire il personaggio e il suo spirito complesso – un cast di giovani e talentuosi attori/cantanti. Primo su tutti Luca Micheletti, anche dramaturg del progetto, che impersona un rigoroso e precisissimo Giuseppe Givola (alias di Goebbels, ministro della propaganda nazista), pieno di sfumature e ironicamente inquietante. Uno zoppo costruito fisicamente intorno ai movimenti di una gamba nevrotica, un cantante espressivo negli stacchi musicali, una presenza costante ma mai in disequilibrio. Nel ruolo di Ernesto Roma (alter ego di Ernst Röhm) c’è Lino Guanciale: tecnica attoriale pura costruita con competenza e attenzione, fatta di pause e toni, di registri variabili ed elastici. Un personaggio ironico, drammatico, che viene tradito dalla sua stessa fedeltà a Ui. Attori, ed è una gioia poterlo dire, che non permettono – e poi, perché dovremmo? – distrazione. E ancora Diana Manea – ovvero tutte le donne presenti in scena, dalla prostituta alla signora Dullfett – spiritosa ed elegante; e Giorgio Sangati, Michele Nani, Nicola Bortolotti, Simone Francia, Ivan Olivieri, Antonio Tintis. Da non dimenticare Olimpia Greco, fisarmonicista che accompagna con la sua discreta presenza le parti musicali.
In Arturo Ui sono presenti (non per mano dell’autore, ma per mano di coloro che lo misero in scena successivamente) alcune canzoni. La scelta musicale di Longhi e Micheletti è stata operata a partire sia da altri lavori di Brecht che da opere coeve che da canzonette tedesche di satira. Il risultato è uno spettacolo che miscela in modo equilibrato e divertente scene in prosa e stacchi musicali, che creano una magica connessione con il pubblico.
In una scena pulita e monumentale (le scenografie sono di Csaba Antal), fatta per lo più di cassette per la verdura bianche impilate, i personaggi prendono vita e forma, ci trascinano in uno spettacolo molto fisico, movimentato, corporeo. Uno spettacolo che riporta in superficie il significato vero di teatro: profondo e magico il momento, intimo, in cui Arturo Ui indossa definitivamente i panni del Fuhrer, truccandosi e indossando baffi e parrucca davanti allo specchio. Uno spettacolo che lascia soddisfatti anche coloro – me inclusa – che sono scettici nei confronti di Brecht e della sua opera (soprattutto della sua attualità); che lascia soddisfatti giovani – il pubblico più implacabile! – e adulti; che è in grado di far passare il tempo senza sbalzi e senza lungaggini.
“La resistibile ascesa di Arturo Ui” è da vedere, perché non è comune, di questi tempi, vedere concentrata così tanta competenza e così tanta voglia e capacità di fare quel teatro, unico e irrinunciabile, che non si prende troppo sul serio.

È curioso come una storia lontana – siamo nel 1630 – possa non fare fatica ad arrivare fino ad oggi. Ancora più strano è che questa storia possa ancora dire qualcosa. La “Storia della colonna infame”, portata in scena dal regista Giovanni Guerrieri al CRT Salone per la seconda stagione di fila, è in grado di comunicarci sicuramente qualcosa. In scena, un disordine ottocentesco: divani e poltrone imbottite, tavolini dalle gambe sinuose, ammassi di oggetti pesanti e polverosi. Una sorta di soffitta stanca. Due personaggi eleganti, pacati, come ombre, riportano la storia raccontata da Alessandro Manzoni a corredo della vicenda de “I promessi sposi”. Durante la pestilenza a Milano la fantasia di una donna pettegola e con manie di protagonismo porta alla condanna di due innocenti: il commissario di sanità Guglielmo Piazza e il barbiere Gian Giacomo Mora vengono condannati a morte con l’accusa di essere untori (la donna li aveva visti dalla finestra!), di contribuire volontariamente a diffondere la peste tra i cittadini.
Silvio Castiglioni usa la sua capacità di raccontare, di modulare la voce, di far scivolare lo spettatore in un fiume di parole, di immagini, di relazioni. Accanto a lui una donna misteriosa (Emanuela Villagrossi), presenza quasi impalpabile, gli fornisce spunti, lo osserva. I due personaggi sono svuotati, come sfiancati da una vita rinchiusa in quella soffitta. Una pesantezza fragile, come quella della piramide di bicchieri di cristallo che Castiglioni costruisce con maestria e precisione. Come quella degli oggetti che sul finale iniziano a muoversi come per magia, andando a costruire un tessuto visivo e sonoro che si aggiunge a quello di suoni stravaganti (belati di pecore) uditi fino a quel momento. E alla fine una cornice di luce (il disegno luci è di Giuliano Bottacin e Anna Merlo) lascia intendere una realtà altra, un mondo diverso, leggero, quanto meno aperto. Ma con delle pecore, vittime per antonomasia.
La colonna infame è la lapide che fu eretta sulla casa ridotta in macerie di Gian Giacomo Mora, a testimonianza di come le autorità dell’epoca avessero duramente colpito un colpevole. Fu rimossa nel 1778 ma resta comunque in vita, presenza di pietra. Un testo asciutto, senza giudizio, quello di Manzoni. Lo spettacolo di Guerrieri è altrettanto semplice, ma conserva una strana vena di inquietudine che non lascia indifferenti.

“Santa Giovanna dei macelli” è il testo in cui Bertolt Brecht raccontò la sua versione della crisi economica del 1929 (l’opera è dell’anno successivo). Protagonisti sono Giovanna – una giovane donna animata da spirito cristiano che vuole salvare l’umanità dalla miseria (e dalla corruzione che dalla miseria deriva) – e Mauler – imprenditore della carne di Chicago che specula su bestiame e scatolame per poi finire, almeno per un po’, in rovina. Entrambi sono circondati da una serie di personaggi che creano come dei cori (i Cappelli Neri, “i soldati del buon Dio” da una parte e gli speculatori allevatori di carne dall’altra, a loro volta immersi nel marasma della povera gente che lavora ai macelli).
Questo lo scenario del testo che Luca Ronconi, alla sua prima regia dell’autore tedesco, porta sul palco del Teatro Grassi. In una scena estremamente sintetica e meccanica (realizzata da Margherita Palli) vediamo i personaggi secondari spostarsi nello spazio spesso mossi da carrelli o issati da una gru, accompagnati da immagini cinematografiche che ne sottolineano la distanza dalla realtà. Gli imprenditori/allevatori sono immersi in grosse latte di carne in scatola colorate e vistosamente pubblicizzate, che si accartocciano man mano a simboleggiare la caduta di uno stile imprenditoriale che pare, nelle buone intenzioni, essere destinato al fallimento. Mauler appare la prima volta in sella ad una latta sospesa, imponente e inquietante non solo in scena ma anche sul pubblico. Uno schermo sempre presente fa da quinta per proiezioni ora funzionali (capitoli, titoli di giornale che raccontano il contesto) ora narrative (Slift l’assistente senza scrupoli di Mauler, mostra a Giovanna la bassezza dello spirito umano riprendendo e proiettandole davanti alcuni poveracci che si mostrano nudi con la propria avidità; le mostra “la malvagità dei poveri”).
È una messa in scena complessa e ardita, quella che Ronconi sottopone al pubblico. Maria Palato (Giovanna) e Paolo Pierobon (Mauler), insieme a Fausto Russo Alesi (Slilft) e agli altri numerosi attori (dieci i personaggi principali, una quindicina gli attori che creano i cori) impersonano caratteri ambigui, che oscillano in continuazione per opinioni e atteggiamenti. Giovanna, da naif ingenua piena di entusiasmo e pronta a convertire alla carità chiunque, si scontra con l’avidità umana e la corruzione che rende chi ha fame insensibile anche di fronte alle proprie disgrazie. Mauler, dopo l’incontro con la ragazza, sembra rinsavire e pentirsi. Affronta un presunto tracollo finanziario, arriva a farci quasi pietà. Poi torna a essere cinisco, spietato e avido, a fianco del fidato Slift, nella morale finale: all’interno di ogni uomo albergano due anime opposte, una pura l’altra nera, una onesta l’altra ingannatrice. In sostanza bisogna accettare l’uomo così, per come è: ambiguo.
I due hanno fin dall’inizio un rapporto strano, costruito su attrazione e diffidenza, che però non arriva mai a toccare e parlare in profondità. Alla stessa maniera la metafora del mondo come macello, il messaggio “quelli in alto sono lì perché gli altri sono in basso”, la continua discussione sulla necessità della violenza come mezzo di cambiamento, non sono temi che rimangono particolarmente impressi.
Certo: la coerenza con il momento storico che viviamo e l’evidenza di analogie tra la storia e il sistema finanziario attuale è chiara, ma non supera la retorica. Si sarebbe potuto approfondire qualche aspetto non evidente, come per esempio il fatto che Mauler riceva ordini dai misteriosi e onniscienti “amici di New York”, o l’atteggiamento contrariato dei – presunti cristiani – Cappelli Neri quando Mauler si presenta da loro senza nemmeno un soldo: “Il suo cuore egli ha portato, non i suoi soldi”. Invece lo spettacolo indugia a presentare cose note – in una cornice sempre scenografica e con attori sicuramente molto bravi, certo – senza scavare veramente dove avremmo potuto capire qualcosa di nuovo.

Harold Pinter scrisse una delle sue opere più importanti, “Il guardiano”, nel 1959. Si racconta delle tre storie di tre differenti personaggi, che si incontrano e ruotano intorno ad una stanza chiusa. Un unico ambiente che sembra non avere un intorno – come in molte opere del teatro dell’assurdo – anche se ci sono piccoli accenni alla situazione esterna. Una stanza chiusa (si pensi alla stessa Stanza di Pinter, o agli ambienti di Beckett), lasciata in disordine, con i mobili avvolti in plastica, quella in cui Lorenzo Loris ambienta la sua regia, con in scena Gigio Alberti (Davies, il barbone), Mario Sala (Aston, uno dei due fratelli, il più tardo – e poi si capirà perché) e Alessandro Tedeschi (Mick, il fratello intraprendente).
La scena si apre con Aston che lascia entrare nella sua stanza Davies, che ha tirato fuori da una rissa: lo ha accolto per gentilezza, senza ragione, solo perché ha buon cuore. Aston sembra (ed è) innocuo e ingenuo e Davies non si fa pregare: accetta l’ospitalità senza particolare riconoscenza e non senza pretese. I loro due mondi non comunicano: Aston è chiuso, concentrato nel fare cose (deve aggiustare una spina, costruire un capanno) e del tutto distaccato dalla realtà; Davies è chiacchierone, vuole dimostrare – a parole – di essere in gamba, uno di mondo, che sa arrangiarsi da solo. Vuole apparire pieno di mistero e di impegni (deve recuperare dei documenti, deve riuscire a trovare un paio di scarpe, lui che ne ha provate tante e sa quali sono quelle che vanno bene….). Aston propone a Davies di restare – nonostante siano evidenti non piccole incompatibilità tra i due – a fare il guardiano della casa. Davies accetta senza esitazione: avrà un letto, una paga (anche se – chiaro! – lui ha sempre lavorato e sa come funziona il mondo….).
Aston lascia solo Davies in casa. Arriva Mick, il fratello di Aston, vero proprietario della casa in cui i due stanno vivendo. Mick è un “imprenditore di se stesso”: ha la sua attività (quale non è dato saperlo!), i suoi impegni; è pieno di progetti e di spirito di iniziativa. Frastorna Davies, lo mette alla prova, mostrandogli chi comanda. E quando anche Mick arriva a proporre a Davies di fare il guardiano per la sua casa, Davies sfodera la sua arma più potente: la capacità (almeno presunta) di schierarsi dalla parte del più forte. Inizia a parlare male di Aston, lo stordito, lo strano, riempiendo di complimenti Mick, che non sembra dargli corda. Finché Davies esagera, non rendendosi conto che Mick non ha nessun interesse a scavalcare il fratello (che apprendiamo da un lungo monologo essere stato sottoposto, ancora molto giovane, all’elettroshock ed essere rimasto per questo “frastornato”).
Pinter mette in scena alcuni dei difetti umani più fastidiosi: la presunzione, l’illusione, la falsità, la volontà di approfittare di chi si dimostra disponibile. La storia è un triangolo senza collegamenti tra i punti: ognuno va avanti per la sua strada, sordo alle esigenze altrui (nel caso di Aston, che prova a tendere una mano per gentilezza e ingenuità, il discorso è ancora più denso di significato). Pensando di essere il più forte. Bravi gli attori a creare tre personaggi simbolici e derisori dei difetti umani senza esagerazioni. E quando alla fine non vince nessuno – in fondo non c’era niente da vincere – resta il fastidio provato per aver visto sprecare tante possibilità e tante occasioni. Come succede davanti ai nostri occhi tutti i giorni.

Dall’alto di un palo, issato sulla terra, cosa si può vedere? Si guarda giù e si può vedere qualcosa che sembra mare, forse. Potrebbe sembrare mare. È fango. È schifo. È pantano. Ci si deve liberare. Si deve cercare di tenere alta la testa, dopo aver trascorso troppo tempo a tenerla bassa.
Lassù piove. O forse pioverà. O forse si aspetta che piova. “Pali” è un testo (vincitore del Premio Ubu nel 2009) enigmatico, che si muove tra metafore e allegorie con molta facilità. L’autore, Spiro Scimone, è in scena insieme a Francesco Sframeli, regista, Salvatore Arena e Gianluca Cesale.
In un contesto pulito e limpido, simmetrico, molto pop, i quattro personaggi cercano la propria dimensione per riuscire ad andare avanti. Tutti possono salire sui pali, basta trovarne uno libero. Chiunque può affrancarsi dalla sua condizione di sudditanza, basta che abbia un’opportunità. In fondo siamo in cima ad una sorta di Golgota colorato.
Sulla scia del grande teatro dell’assurdo del Novecento (inevitabile sentire il richiamo alle strutture e alle dinamiche di dialogo di Beckett), “Pali” cerca di lanciare un messaggio di ineluttabilità. La condizione umana, disperata e vacua, non può, in fondo, essere colmata. Non può raggiungere un equilibrio se non nell’annullamento.
Lo spettacolo funziona, ma non ha la potenza che vorrebbe. Resta incastrato in un virtuosismo linguistico e logico che non permette di vedere davvero ciò che sta dietro. Il presunto vuoto. O ciò che sta in basso, la presunta merda (mi permetto di usare il termine perché usato nel testo stesso).
I personaggi non riescono a diventare coro così come non riescono a diventare simboli, icone (cosa che invece i personaggi di Beckett non possono evitare). E l’ironia, voluta, non sfonda con forza, ma affiora facendo sorridere per il momento, non per il messaggio. Quello che si dice è poetico ed esistenziale: c’è la cattiveria, c’è la rassegnazione, ci sono il sadismo e l’illusione di essere i più furbi. Il messaggio finale è tuttavia slegato e senza una vera unitarietà di veduta e di intento.
Abbiamo visto il pieno, un pieno piacevole della sua drammatica ridicolezza. Ma potevamo vedere il vuoto e questo sì, ci avrebbe spaventati.